Umberto Viti, la favola di un mago sul fiume
Questa è la favola di un mago. Un po’ come il mago di Oz, che con un soffio di vento spostò il mondo della piccola Dorothy in un’altra dimensione, con un semplice fortunale. No, aspetta un attimo. Il vento forgiato da questo mago non è arrivato in una notte: ci ha messo anni, decenni, a prendere forma e forza. Prima ha iniziato a spirare sulla fiducia, poi sul lavoro, solo all’ultimo istante, quando il traguardo era lì, è stato consacrato dai risultati.
Eppure con quello di Oz, il nostro mago ha almeno un punto in comune: ha saputo spostare l’orizzonte di una piccola famiglia, di un piccolo club fino ad allora sperduto, conosciuto soltanto dai suoi soci più accaniti e forse pure un filo provinciale – come spesso capita nel mondo delle Canottieri – fino al tetto dell’Olimpo.
Un volo, trascinato dal vento del lavoro, della fatica, anzi del “metodo”, come tutti si ricordano, durato vent’anni nei risultati, molto di più nell’applicazione precedente, e di più ancora nell’eredità che ha lasciato. Dorothy da casa finì nel mondo di Oz, l’Eridanea da Casalmaggiore si arrampicò fino a Seoul e Sidney, senza scordare i vari allori Europei e Mondiali.
Un mago strano, il nostro, che non credeva alla magia, se non a quella contenuta in uno sguardo – lo sguardo di chi prevede il futuro, o ha la cocciutaggine per pensare di poterlo plasmare – , né alla chimica – quella della peggior specie, quella che inquina lo sport e lo rende un’altra cosa. Non un mago naif, uno che vagheggia, magari si perde via e poi sa improvvisare per porre rimedio. No, il nostro mago è ferreo nei modi, spesso duro nei toni, ma sa interpretare vari ruoli: allenatore, padre, fratello, amico. Il nostro mago sa che il tempo del lavoro deve essere commisurato a quello del recupero e del relax, il tempo del rimprovero non deve mai prescindere dal tempo di una battuta o di uno scherzo.
Un mago burbero, all’apparenza, che però non ha mai lasciato tra parentesi l’arte della disponibilità. Un giorno il mago, abbastanza restio ad apparire, venne invitato in una trasmissione tv per parlare di ciò che aveva compiuto. Per ricordare i fasti passati, e in fondo ancora un po’ presenti, perché no? L’appuntamento era per un giovedì sera, in diretta, in quello che lui considerava il suo laboratorio, la sua seconda casa, anzi il suo secondo casotto, in riva al fiume Po, che ispirava alchimie prima ancora che magie. Il mago capì male – meglio dire che si spiegò male colui che mosse l’invito – e si presentò al casotto mercoledì. Attese dalle 21 alle 21.30, sospirò, tornò a casa perché nessuno venne. Il giovedì mattina, quando l’invito gli venne ricordato per la sera, il mago inizialmente sbottò: “Veramente vi aspettavo ieri, vi ho atteso per mezzora”. L’arrabbiatura durò un secondo poi – lì sì, come per magia – lasciò posto a un: “Ci vediamo stasera, puntuali però”.
Il mago della nostra storia non ha un cappello a punta come Merlino, ma un copricapo di tela che ricade sui quattro lati, alla Sampei. Persino buffo: ma guai a farglielo notare durante l’allenamento. E ha un megafono, immortalato in diverse fotografie. C’è un tempo per scherzare, ma il tempo per lavorare è il più sacro di tutti. Una liturgia di sudore, acido lattico, concentrazione. Quel vento che spostò l’orizzonte fino in cima all’Olimpo non era composto da strane formule: era testa e muscoli, e anzi più c’erano i muscoli, per costituzione fisica, più andava allenata la testa; più la testa era pronta a drizzare la barra verso il risultato, più andavano scolpiti i muscoli. La resistenza c’è solo nella sofferenza. E viceversa. E non c’è vittoria – nello sport che il mago amava assieme al fiume che lo culla – senza resistenza. Il suo diktat era tutto qui, anche se non lo teorizzò mai, perché il nostro mago è sempre stato un tipo pratico. L’unica concessione, quella frase oggi incisa su un murales, era nulla senza la sua applicazione: “Il canottaggio purifica animo e mente, fa crescere, aiuta a superare crisi e piccole difficoltà giovanili”. Il sacrificio come catarsi, e lo sguardo sempre volto ai giovani.
Quando lo sport del mago, il canottaggio appunto, decise a livello nazionale di ripartire, lui aveva già i capelli bianchi da tempo, aveva già tanta esperienza sulle spalle, ma quando qualcuno in Federazione disse, nel 2012, “riapriremo la fabbrica dell’oro”, il mago forse sorrise, si guardò indietro e pensò: “Io qui l’ho aperta esattamente 24 anni fa”. E’ probabile che quella fabbrica non abbia ancora chiuso: perché il lascito del mago è nelle leve che verranno e perché un aggettivo che è meglio abbandonare, quando si parla del mago, è “irripetibile”. Spieghiamoci meglio: irripetibile è il mago, ma non dev’essere il suo sogno. Perché adesso, dove lui è passato a seminare, sanno come coltivare talenti. E magari futuri allori. Con “metodo”, quello fatto di calcoli, aggiornamento, studio, ma prima di tutto messa in atto. Due palme, per il mago: quelle del Coni, di bronzo nel 2009, d’argento nel 2015. Entrambe giunte per meriti tecnici, mentre quelle d’oro finirono all’Eridanea. Perché il mago era pure altruista.
Il mago non era un tipo solitario: il mago amava stare tra i suoi giovani, capirli, trovare il punto chiave dove stimolarmi. Se poi proprio la risposta non arrivava, beh, allora era meglio salutarsi, senza rancore. Il mago però, sapeva anche quando stare con la famiglia, con la moglie Saturna e la figlia Anastasia: quest’ultima non a caso si è affacciata al mondo della scuola, perché quel mondo era stato guardato con favore anche dal mago, da suo padre. Campioni con l’armo forse, campioni nella vita per forza. Ecco perché a qualcuno dei suoi allievi, lo sforzo più grande che chiese, la tortura più profonda incisa nell’anima, non fu quella sul campo di regata, a forzare i tempi e alzare il ritmo, bensì quella sui banchi di scuola, per forzare la mano al futuro, per regalarsi comunque una chance anche al di fuori dell’acqua e di una barca. Perché il mago non improvvisava mai, il mago voleva costruire qualcosa di solido per i ragazzi che aveva amato. Oggi gli sono tutti riconoscenti, ricordando in un sorriso anche le incazzature e le urla. Quando è così, non è mai per caso.
Il mago non era un tipo solitario, si diceva: ma sapeva ritagliarsi il tempo pure per sé. Ogni particolare merita il suo spazio, e lui lo sapeva. Così, spesso al crepuscolo, ma a volte pure col sole alto in cielo, il mago prendeva il suo cappellino e passeggiava in riva al venerato Padre Po, che molto gli aveva dato e al quale lui aveva donato tutto se stesso. Da Cremona a Casalmaggiore, due patrie e un unico amore.
Il mago aveva un cuore di carne e sangue, un cuore che piegava il destino: è stato il cuore, è stato il mago a decidere quando tutto poteva finire, quando la sapienza diffusa – tra le brume della pianura, un sole coreano e le architetture ultra-moderne dell’altro emisfero, autentico eroe dei tre mondi – poteva bastare per tutti e per le generazioni a venire. Non è mai stato il destino a decidere per lui. Il cuore ha strappato, ha vogato un’ultima volta: come Gianluca tra gli occhi a mandorla, come Simone al Sidney Regatta Center, perché là in Australia amano storpiare e fare propria ogni lingua straniera…
Il cuore pulsa e si ferma: il mago però resta. L’accento cremonese che non accettò mai l’inflessione casalasca, non per ritrosia o campanilismo, ma per un abbraccio ideale tra queste due terre. Lui che da Cremona scese a Casalmaggiore per riempire d’invidia e ammirazione la sua terra d’origine. La leggenda narra che, di sera, al crepuscolo, sulla strada che conduce al “casotto” che nacque dopo quel 1988 glorioso, un cappellino di tela con i quattro lati all’ingiù si possa ancora notare, mentre fa capolino tra una salita dell’argine e una discesa a Po. E quando là sul pelo dell’acqua sentirete ancora un megafono gracchiare, un allenatore incitare e vedrete un giovane rincorrere il suo sogno spostando l’acqua all’indietro con tutta la forza che ha, allora capirete che la magia migliore, il mago, l’ha lasciata ai posteri.
A proposito, quasi dimenticavamo, ma tanto a questo punto già avete capito. Il mago si chiamava, anzi si chiamerà per sempre, Umberto. Umberto Viti.
Giovanni Gardani