Kobe Bryant, per me che non so nulla di basket

 

Giovanni Gardani

Non so nulla di basket. Non so nulla di Nba. Forse, se mi impegno, riesco a dirvi chi ha vinto l’ultimo titolo. Conosco le regole di questo magnifico sport, questo sì, almeno a grandi linee. Ma per il resto… Eppure domenica, quando in Italia era ora di cena, la notizia della morte di Kobe Bryant mi ha colpito come poche altre. Un collega bresciano ha scritto, nei giorni scorsi: “Ricordo esattamente dove ero quando è morto Senna, quando è morto Pantani e, ora, ricorderò anche dov’ero quando se n’è andato Kobe”. Vale più o meno lo stesso per me, che di pallacanestro non so niente.

Il punto è che non stiamo parlando di basket, ma di sport. Non di risultati, ma di vita. A tal proposito, ho apprezzato molto, nell’omaggio che il Milan ha reso a Kobe e sua figlia Gianna Maria, la citazione delle altre sette vittime della sciagura sull’elicottero che doveva portare la 13enne figlia di Bryant all’allenamento.

Non so nulla di basket, dicevo. E ovviamente non ho mai avuto l’onore di conoscere Kobe Bryant, per quanto dicono non fosse così inaccessibile: cresciuto a Reggio Emilia grazie agli impegni sportivi del padre, parlava italiano meglio di tanti altri e al Belpaese era da sempre legato. Apprese la nostra cultura e i fondamenti che la forgiarono millenni fa: amava i poemi epici, che dagli antichi greci e dai latini abbiamo ricevuto. Della sua vita e carriera ha fatto un confronto con i giganti, proprio come narrava Omero. Come si può pensare che si tratti solo di uno sportivo? Un cultore del lavoro come lui non poteva dimenticare le origini: badateci bene, gli atleti più seri e che più professionalmente interpretano il lavoro sono anche coloro che più difficilmente scordano da dove sono partiti. E Bryant non conobbe, inizialmente, l’Italia delle metropoli e baricentrica: conobbe e visse visceralmente la periferia (non Milano ma Reggio Emilia, non Roma ma Rieti), dove il vero Paese spesso emerge lontano dai lustrini.

Non so nulla di Nba. Eppure l’estate scorsa, quasi per caso e per rilassarmi, ho riacceso la mia Playstation 3. Non accadeva dal 2014, una vita fa. Tolta la polvere, mi sono messo a giocare con un titolo legato proprio alla pallacanestro. Qualche partita per riprendere il ritmo e la confidenza, la necessità di scegliere una squadra. Los Angeles Lakers, ovviamente. Per fama, più che per tifo. E perché prendere i più forti, rispetto al periodo cui si riferiva il videogioco, è un buon modo per ricominciare ad approcciarsi al mondo videoludico. Al termine di ogni gara l’MVP era sempre lui, il numero 24. Kobe Bryant. Anche se con la mia “scarsezza” congenita, riuscivo a fare sbagliare i tiri da tre pure al suo avatar nel gioco.

Perché citare un videogame per ricordare uno dei più grandi sportivi di sempre, che veniva esattamente dopo Michael Jordan, come eredità sportiva, come impatto mediatico e pure come numero di maglia (dal 23 al 24)? Perché Kobe Bryant era prima di tutto cultura. Non sono cestistica, ma a tutto tondo. Quando entri in un campionato colossale come l’Nba, esageratamente forte dal punto di vista tecnico e fisico come tutte le cose molto americane, sai già che, se emergerai, non sarai più solo un giocatore, ma l’icona di quello sport. E di una mentalità. A livello naturalmente universale. Ecco perché non è vero che ci sono morti di serie A o di serie B, ma è vero che ci sono dipartite per le quali lo choc è necessariamente più forte, anche se non hai mai conosciuto quelle persone. Un dolore su scala planetaria, specie per quello che Bryant rappresentava: un motivatore per tanti. Ruolo che incarnava con consapevolezza, peraltro.

La Mamba Mentality (Black Mamba era il soprannome di Bryant) nasceva dall’esigenza del miglioramento e dalla consapevolezza che solo il lavoro avrebbe regalato una chance. Applicato al calcio, è un po’ quello che Cristiano Ronaldo – soprattutto ad un certo momento della carriera – ha cercato di fare per raggiungere Leo Messi, l’arcinemico. Se ci sia riuscito o no, non è importante saperlo e potremmo questionarne per ore. La differenza è che Bryant ha dovuto farlo dapprima per essere gigante tra i giganti, per essere il migliore del miglior campionato professionistico al mondo; poi, quando c’è riuscito, non ha comunque smesso, per alzare ancora di più l’asticella, sfidando se stesso. E l’incrocio con se stessi è spesso il più duro di tutti.

Scorrevo, in questi giorni, i video con le migliori giocate di Bryant: non so nulla di basket, ma credo di saper discernere l’estetica e la funzionalità di una giocata. E Kobe, come pochi, sapeva unire le due caratteristiche: mai un tiro a caso, mai una finta buttata lì. Non un calcolatore, perché l’istinto lo ha spesso guidato, ma il suo era un istinto baciato dalla grazia che quasi sempre gli regalava la scelta giusta. Tra tante giocate una mi ha colpito: non è un canestro, non è una schiacciata o un tiro da tre. Bryant perde palla nell’area avversaria e regala il contropiede. Chi ha riconquistato palla va fino in fondo, sta per schiacciare e invece no: la stoppata, da dietro, arriva da Kobe, che si fa tutto il campo a velocità supersonica e crede alla cancellazione di quel canestro, crede di poter mendare al suo stesso errore. Non l’avrebbe fatto nessuno, lo ha fatto Bryant: lì c’è tutta la Mamba Mentality, lì che la resilienza come valore cardine di una carriera.

L’uscita di scena di Bryant, poi, fu epocale, questo lo ricordo anche io che la pallacanestro non la mastico. Sessanta punti nel match d’addio, cifra tonda, per aiutare i posteri a ricordarlo meglio: è un po’ come se Franco Baresi, durante l’ultima gara ufficiale (non un’amichevole organizzata ad hoc), avesse fatto una doppietta…

 

Bryant ha sempre avuto tanti punti nelle mani, ma quota 60 era impensabile, specie per un atleta a fine carriera. E in una gara comunque tirata, chiusa con un margine lieve. Ma è proprio qui che sta l’altro punto chiave del personaggio Bryant: non ha mollato quando era in fase calante, ha mollato quando – con grande onestà intellettuale – ha capito che voleva altro, che aveva dato tanto al basket ed era giusto lasciare spazio ad altri. Ha mollato dopo avere passato il culmine, ma prima di una parabola discendente troppo ripida, sapendo che farlo più tardi poteva sporcare il suo ricordo e il suo messaggio universale.

E’ per tutti questi motivi – e perché ci lasciano, in fondo, un uomo di 41 anni, una ragazzina di 13 anni, promessa della pallacanestro, e altre sette persone assieme a loro – che è difficile darsi pace. E’ per questo che l’icona e il messaggero Bryant mancherà. Anche a chi, come me, non sa nulla di basket.

Giovanni Gardani

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