Joe Cocker, Woodstock e qualche aneddoto
Nel 1979, dieci anni dopo il leggendario festival di woodstock, alcuni reduci di quello storico evento, decisero di unirsi per intraprendere una tourneè che li portò anche nello stadio di Casalmaggiore che vide sfilare una popolazione pseudo-hippie, una tribù composta da nostalgici appassionati, qualche tossico assortito e comunque una variopinta audience, che già dal giorno prima aveva assediato la cittadina.
Confidando sulla mia giovanile agilità, scavalcai il cancello che dava sul retropalco. Non passai inosservato e l’allontanamento fu repentino. Ebbi il tempo però di scorgere Joe Cocker e Richie Havens che conversavano seduti su un amplificatore. Cocker indossava una camicia sporca di vino e brandiva una bottiglia di Jack.
Le sue condizioni psico-fisiche erano infatti l’argomento principale tra gli intervenuti, molti tra i quali dubitavano che riuscisse a salire sul palco. Tra i partecipanti anche Country Joe, Arlo Guthrie ed altri, tra cui Richie Havens, che a Woodstock aprì le danze con una improvvisata versione, pollicione e chitarra e posseduto da una indimenticabile trance dell’innodica “Freedom”, a cui seguì l’altrettanto tarantolato Cocker, la cui sorprendente performance, col suo tipico ondeggiare e sbracciarsi di una mostruosamente intensa “With a little help from my friends” dei Beatles, lo consegnerà tra le icone di quel contesto e del rock in generale.
Havens ha vivacchiato fino alla fine in un aurea mediocritas, mentre l’inconfondibile raucedine della voce cartavetrata, ma potente ed espresssiva, di Joe, gli ha fatto raggiungere nel corso di una cinquantennale carriera e altrettanti dischi, livelli di popolarità a volte anche imponenti, grazie ad indovinate partecipazioni in fortunate colonne sonore negli anni ’80. E i suoi dischi, impregnati di rock, blues e soul, composti per la maggior parte da brani altrui, (straordinarie le riprese beatlesiane), dato che Joe era un interprete, tra alti (parecchi) e bassi (pochi) sono sempre stati una gradita abitudine.
Dagli eccessi dei ’60 e ’70, documentati sonoramente dal monumentale live “Mad dogs and englishmen” fino ai più recenti lavori, Joe poteva ben definirsi un classico contemporaneo. Nonostante le origini britanniche (Sheffield steel è infatti il titolo di uno dei suoi migliori dischi), viveva negli ultimi anni, nel suo ranch in colorado e la moglie diceva, gli dava il permesso di andare in città ogni quindici giorni. O tempora o mores.
Adesso i baristi di Denver non vedono più quel settantenne dalla simpatica faccia triste. Una grossa perdita per loro.
Dario ‘Bluesman’ Gozzi