IL RACCONTO – Artide e Dostoevskij…
Forse un raggio di sole, dopo aver fatto improvvisamente capolino da dietro una nuvola, si nascose di nuovo sotto la nube carica di pioggia, e tutto di nuovo si offuscò ai miei occhi; o, forse, davanti a me balenò così sgradita e triste tutta la prospettiva del mio futuro, e io vidi me stesso così come ora, esattamente tra quindici anni, invecchiato, nella stessa camera, ugualmente solo, con la stessa Matrëna, che non era diventata più intelligente in tutti quegli anni. Ma non pensare che ricordi la mia offesa, Nasten’ka! Che spinga una nuvola scura sulla tua chiara e tranquilla felicità, che, rimproverandoti aspramente, spinga l’angoscia sul tuo cuore, lo offenda con un segreto rimorso e lo faccia battere angosciosamente nel momento della beatitudine, che sciupi anche uno solo di quei teneri fiori che hai intrecciato nei tuoi riccioli neri, quando sei andata insieme a lui all’altare… Oh, mai, mai! Che sia chiaro il tuo cielo, che sia luminoso e sereno il tuo caro sorriso, che tu sia benedetta per l’attimo di beatitudine e di felicità che hai dato ad un altrui cuore solo, riconoscente! Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! Ed è forse poco seppure nell’intera vita di un uomo?… (F.Dostoevskij – Le Notti Bianche)
Lo aveva chiamato Artide. Così, di getto, la prima volta che lo aveva visto affacciarsi sotto al suo portico, un paio di anni fa. Era d’inverno. Un inverno di nebbia e di freddo pungente, di quelle in cui tendi a stare fuori il meno possibile. Di quelli in cui ti chiudi in casa.
Il pelo nero e lungo aveva raccolto tutta quella umidità, ma non sembrava soffrirne più di tanto. Era capitato lì, e forse era stato il destino a farli incontrare. Aveva sempre vissuto solo Angelo, in quella casa di campagna vicino alla statale. Una vecchia casa dalle pareti sbrecciate e dalle pietre in alcuni punti a vista. Non gli importava poi un gran ché. La maggior parte del tempo la viveva fuori, preso dal lavoro. Quando poi tornava a sera non aveva tempo per fermarsi ed il buio gli dava una mano.
Artide era lì, ad una decina di metri da lui e lo fissava. Angelo tirò fuori una scatoletta di tonno e qualche ritaglio di prosciutto che conservava in frigo e lo mise su un piatto. Pensava che Artide si sarebbe avvicinato, ma non fu così. Tornò a chiudersi in casa tra i suoi pensieri. La mattina dopo il cibo non c’era più.
Andò avanti così, per mesi. Angelo tornava a casa, Artide era lì ad aspettarlo. Qualche mese dopo, sulla soglia di casa, trovò un piccolo topo morto e ne sorrise. Pensò, tra se e se, che quello fosse una sorta di regalo, un piccolo grazie del felino al pasto serale. Dopo tre mesi da quella prima volta Artide si avvicinò mentre Angelo preparava la scodella con le crocchette. Ci fu appena il tempo per una carezza prima che fuggisse via. Il gatto lo stava studiando.
Passarono altri due mesi. Una sera – di temporale e vento – di ritorno a casa vide il felino sullo zerbino della porta. Era lì ad aspettarlo ma, diversamente dal solito, non era distante. Fu un attimo, Angelo aprì la porta ed Artide entrò per studiare la casa. Dopo un breve giro si mise sul piano della credenza, e lì dopo poco tempo si addormentò. Alle 3 del mattino Angelo fu svegliato dal gatto. Gli aprì la porta e Artide se ne andò verso il buio.
Quella scena poi si ripropose per altri mesi. Alla sera, di ritorno a casa, il gatto entrava dopo aver mangiato e si accomodava. A volte sulla credenza, altre volte ancora sulla poltrona dove Angelo si sedeva per guardare la televisione. Si fermava sulle gambe, un paio di ‘impastini’ e poi si addormentava. Quando giungeva l’ora di andare a letto poi Angelo lo riponeva delicatamente sulla poltrona ma allo spegnersi delle luci Artide saliva sul letto e lì restava per qualche ora. Era passato un anno ormai, o poco più.
Una sera, tornando a casa, non lo vide. Era già capitato altre volte e non se ne preoccupò. I gatti sono la massima espressione della libertà, sono loro che decidono cosa fare e come. Lasciò il cibo fuori e si chiuse in casa. Alla mattina dopo il cibo non c’era più. Pensò che fosse venuto e poi se ne fosse andato, come tutte le altre volte.
Artide non tornò più. Angelo lo cercò nei dintorni, chiese ai vicini ma di lui si era persa ogni traccia. Continuò a lasciare fuori il cibo, che alla mattina dopo non c’era più. A mangiarlo forse Artide, forse altri gatti o forse i ricci, o forse chi sa chi.
Se ne rattristò ma poi, quando pensava a quel gatto nero conosciuto in una sera di gelido inverno, gli tornava sempre in mente. E lo vedeva, in qualche prato, in qualche altro dove, in qualche altra storia ad accendere un sorriso. Lo immaginava, libero come le ombre della notte, a posarsi nell’anima di chi ne aveva ancora bisogno. Fu così che lo ricordò per sempre. Artide, in fondo, lo aveva accompagnato per un pezzo di strada, lo aveva preso per mano, gli aveva dato un motivo per legarsi a qualcuno, ad una presenza.
Anche la Nasten’ka di Dostoevskji se ne era andata per sempre, verso un altro dove e in un altro cuore. Ma restava il ricordo. Un ricordo struggente di un vissuto. Artide era dentro a quel ricordo, e così vi rimase, sino alla fine dei giorni.
Nazzareno Condina