Gabriele Caraccia, due mesi col Covid
“Sono entrato in camera mia che la gente andava ancora in giro in costume e infradito; sono uscito che tutti avevano addosso il cappotto”. Non è il Paese delle Meraviglie, non c’è uno specchio magico né un portale inter-dimensionale che consente di bypassare mondi e stagioni. Anzi, di soprannaturale nella storia di Gabriele Caraccia, classe 1991 residente a Casalmaggiore, non c’è proprio nulla. La causa dello sconquasso, infatti, è molto terrena e si chiama Covid.
“Mi sono ammalato il 23 agosto, sono stato dichiarato guarito, dopo nove tamponi, il 16 ottobre”: occhio alle date. Il 23 agosto Gabriele doveva iniziare la preparazione atletica con la società mantovana dell’Acquanegra sul Chiese, iscritta al girone F di Seconda, lo stesso della Rapid United; il 16 ottobre, in quello che Gabriele definisce scherzosamente “giorno della scarcerazione”, è uscita l’ordinanza di Regione Lombardia che ha bloccato il calcio in regione, anticipando di una decina di giorni il Decreto Ministeriale che ferma i dilettanti (serie D a parte, per ora) fino a data da destinarsi.
“Aspettavano soltanto me – sorride Caraccia -. Una coincidenza di pura sfortuna, ma se non altro adesso sto meglio e posso riprendere a fare sport individualmente. Non ho certo perso tempo: corro sull’argine, tutti i giorni, e proprio pochi minuti prima di questa telefonata ho pulito le mie scarpe da calcio: staranno ferme per un po’, ma spero che rimetterle a nuovo possa portare bene”.
Come strofinare la lampada del genio: ma il desiderio è solo uno, quello di tutti. Uscire presto dall’incubo Covid per riprendersi la normalità perduta. “I miei sintomi si sono concentrati nel primo giorno e mezzo: ho avuto febbre abbastanza alta, tosse e non percepivo odori e sapori. Così sono andato dal mio medico di base, che mi ha consigliato di sottopormi al tampone. Proprio quel giorno dovevo iniziare la preparazione ad Acquanegra, ma ho avvisato e tutti sono stati comprensivi, così come al lavoro, dove mi sono dovuto giocare oltre un mese e mezzo di malattia (Gabriele lavora alla HVL Color di Casalmaggiore, ndr). Il 27 agosto ho avuto l’esito del tampone, che era positivo: a quel punto, vivendo coi miei, mi sono chiuso in camera e da lì non sono più uscito, fino al 16 ottobre, giorno in cui dopo altri sette tamponi, quasi tutti debolmente positivi e con bassissima carica virale, finalmente mi sono negativizzato. Prima ero arrabbiato, perché a parte i giorni iniziali, quelli di fine agosto, per il resto sono sempre stato bene e inoltre risultavo teoricamente poco contagioso: mi sembrava di essere finito in uno scherzo, per precauzione era giusto tenere duro e non sgarrare. Consiglio a tutti quelli che saranno nella mia condizione di farlo: solo con la responsabilità dei singoli possiamo uscirne come collettività”.
Qualcuno dirà che ti sei riposato. “Ma lascia stare – scherza Gabriele – tanti amici me lo hanno detto, li ho mandati bonariamente a quel paese: a chi pensa che sia bello stare a casa a non fare nulla, dico solo di pensare quanto sia dura psicologicamente stare bloccato in pochi metri quadrati. Mia mamma mi veniva a portare pranzo e cena fuori dalla porta della camera, un po’ come nei film quando portano il cibo ai carcerati. Non ne ho mai fatto un dramma, ma mentalmente è stata dura. Non è come essere in ferie, anzi è davvero come essere in prigione, senza poter fare nulla. E per me, che sono sportivo e super attivo, è stata durissima”.
Gabriele ha ovviato come ha potuto. “Ho fatto flessioni, squat, piegamenti: mi sono sempre tenuto in forma, anche per passare il tempo. Il pallone? Mi è mancato e così negli ultimi giorni ho ricominciato a fare qualche palleggio: per fortuna in camera non ho nemmeno un vaso, altrimenti chi la sente mia mamma! Scherzi a parte, è stato come vivere sospeso. Non c’erano sveglie, non c’erano orari. E a scandire le mie giornate sono stati i film: penso di poter fare il giurato per gli Oscar di Los Angeles adesso, mi sono fatto una cultura cinematografica”.
Il film preferito? “Never Back Down, che avevo già visto e ho riscoperto volentieri. E’ una storia legata al mondo del pugilato, dunque una vicenda di sport. E il titolo tradotto significa “Mai arrendersi”. Uno slogan azzeccato, considerando il momento. E un messaggio per tutti”.
Ti sei fatto un’idea di dove tu possa avere contratto il virus? “No, assolutamente: sono stato un solo weekend lontano da casa, a Milano Marittima. Se è stato lì, è stata davvero una grande sfiga, perché sono comunque stato attento ad evitare il caos”.
Passato dal Gussola 1998 e poi dall’Oratorio Santa Maria, Gabriele ha ricevuto una gradita sorpresa dagli amici di una vita. “Il 13 ottobre è stato il giorno del mio compleanno: aspettavo l’esito del tampone e non potevo ovviamente uscire. I miei amici sono venuti sotto casa per farmi gli auguri. Un bellissimo gesto, che ha anche portato fortuna, dato che poi il tampone è risultato negativo. Dopo di che, il giorno della scarcerazione, come lo chiamo io, mi hanno regalato un fotomontaggio con il mio volto al posto della Statua della Libertà di New York. Diciamo che, nonostante tutto, non abbiamo perso il buonumore”.
Il calcio si ferma fino al 7 febbraio, in Lombardia. Sei ottimista sulla ripresa? “Voglio esserlo, sapendo che una risposta si può dare solo avendo una sfera di cristallo. Ma la voglia di giocare è tanta, e il dazio pagato, da tutti, già molto alto. Dunque cerchiamo di avere fiducia: se è vero che la ruota gira, d’ora in poi deve per forza arrivare qualche buona notizia”.
Giovanni Gardani