Gigaton – Pearl Jam ed il post Grunge
Anticipato dall’uscita del singolo “Dance of the Clairvoyants” Il 22 gennaio scorso, è stata una delle uscite discografiche più attese degli ultimi anni in quanto i Pearl Jam, a seguito di una imponente attività live, hanno atteso sette anni per la produzione di un disco che potesse proseguire il solco tracciato dal precedente “Lightning Bolt e che di fatto ha letteralmente spaccato a metà la critica ed i discepoli della band di Seattle. Vedder e soci si sono ripresentati con un disco dal chiaro impatto sociale, un concept punta ti dritto ai cambiamenti climatici come si capisce già dall’artwork in copertina.
Per alcuni critici “Gigaton recita il de profundis di Eddie Vedder e soci, ma il disco si presenta con tre tracce iniziali molto interessanti e ben differenti tra loro: “Who Ever Said “ apre energicamente il tunnel iniziale in cui chitarre e sezione ritmica danno autenticità rock fino all’irruzione di Vedder. Il prosieguo è energico anche se l’ondata delle battute iniziali lascia spazio ad una maggiore intensità poetica dei testi che si specchia nell’introspezione come in “Seven O’Clock” , virata che coincide con la seconda parte della tracklist.
Quindi i Pearl Jam hanno deluso con Gigaton?
Una domanda che non può avere risposta perché si colloca nella sfera soggettiva e pertanto rimane imperscrutabile. Contestualizzando il disco in una panoramica generale si ha l’impressione che la cifra stilistica dei PJ sia stata rispettata con la solita coerenza, ma di fronte a chi storce il naso perché si aspettava qualcosa di più fresco oppure a chi dice “Sì, i Pearl Jam degli inizi erano ben altra cosa…” non si può obiettare granché soprattutto perchè queste opinioni divergenti, spesso, arrivano dallo stesso pulpito. Per la maggiore parte dei critici rimane il grande lavoro in produzione svolto da Josh Evans, quindi un disco confezionato davvero bene nei dettagli, ma emerge qualche lacuna qua e là, che talvolta è sopperita dalla proverbiale voce di Vedder e per alcuni, addirittura, proprio il modo di cantare del leader dei Pearl Jam sarebbe la nota dolente.
Di questo disco molto si è scritto e detto e nonsi sente la necessità dell’ennesima voce dentro o fuori il coro; la volontà è quella di utilizzarlo come trampolino per un acrobatico flash back volto a riscoprire un mondo sotterrato da lustri di polvere. I Pearl Jam sono stati tra gli alfieri del Grunge, ma vagando in questi sotterranei dell’epopea rock ci si imbatte in un mondo di band che vanno scoperte e che vengono spesso accantonate con l’etichetta Post Grunge.
Usciamo, dunque, per un attimo da Gigaton , ed andiamo a cercare quelle realtà in grado di riservare sorprese davvero allettanti per i palati fini del rock. Alcuni nomi saranno completamente sconosciuti, altri troveranno echi riverberanti nella memoria di qualche appassionato, ma sarà comunque interessante girovagare in questa sorta di mercatino della musica.
POST GRUNGE: Una delle terre più fertili di questa sfera musicale rimane il Canada con i Nickelback a farla da padrone, ma realtà come i Theory of a Deadman non sono certo da relegare in secondo piano. A tratti sorprendenti per profondità ed impatto rock, si impongono con un sound accattivante, sono una band che condivide la provenienza geografica con le prime appena citate:
Three Days Grace. Si tratta di una di quelle realtà musicali che fanno ritrovare il gusto di ascoltare un buon disco rock. In questo senso la produzione è davvero di qualità in tutti i lavori della band proveniente dall’Ontario. Con particolari picchi raggiunti nel disco omonimo del 2003, in “One-X” uscito tre anni dopo ed manche nello stupendo “Outsider” del 2018.
Il filone post grunge ha incontrato altre band che hanno avuto buoni riscontri commerciali, magari sospinte da singoli fortunati come i The Calling, o gli Hoobastanck, mentre i Creed rappresentano ancora oggi una sorta di clone dei Pearl Jam, piacevoli all’ascolto, ma forse meno autentici in chiave creativa.
Per gli insaziabili girovaghi del mercatino rock un ascolto lo meritano gli Shinedown ed i Seven Mary Tree, ma laddove le chitarre si distorcono e la voce si erge, spesso cavernosa ruvida, ritrovate la via che porta verso i 90’s e molte risposte compariranno, magari anche su supporto in vinile!
Alessandro Soragna